Compagnia dell’Orso – Lonigo (VI)
di Carlo Goldoni
Funambolo della parola e maestro di
"spiritose invenzioni",
Lelio ha la strepitosa e terribile dote di costruire immensi, complicatissimi castelli di bugie grazie ai quali riesce a ingannare chiunque gli capiti a tiro. La sua fervida e perfida fantasia innesca un crescendo di esilaranti equivoci che fanno de
Il Bugiardo una delle commedie più divertenti di Goldoni, ma forse anche una tra le più inquietanti e incredibilmente moderne.
Figlio di Pantalone, onesto mercante veneziano, Lelio Bisognosi, il bugiardo, è un giovane brillante e di mondo. Vissuto per vent'anni presso uno zio a Napoli, Lelio fa ritorno nella città natale insieme ad Arlecchino, suo servo; qui ha subito occasione di conoscere le figlie del Dottor Balanzoni, Rosaura e Beatrice, mentre, in assenza del padre, si godono sul terrazzino di casa la serenata di un incognito ammiratore. Ne è autore Florindo, allievo del Dottore e amante timido di Rosaura, cui non osa svelare i propri sentimenti. Lelio non si fa sfuggire I'occasione offertagli: si presenta alle ragazze sotto le spoglie di un ricco marchese e rivendica la paternità della serenata, senza rivelare a quale delle due è diretta per conquistarle entrambe. Ma l'arte delle "spiritose invenzioni", come Lelio ama definire le proprie menzogne, non è priva di incresciose conseguenze: al ritorno del padre, Rosaura e Beatrice vengono falsamente accusate di avere introdotto in casa nottetempo un forestiero, disonorando così il buon nome della famiglia; Ottavio, pretendente di Beatrice, non vuole più saperne di lei; l'accordo tra Pantalone e Balanzoni di dare Rosaura in sposa a Lelio sembra essere compromesso. Quest'ultimo, per sottrarsi alle promesse fatte ad una dama romana e innamoratosi sinceramente di Rosaura, è costretto a bugie sempre più fantasiose, tra cui un finto matrimonio a Napoli e un finto figlio, al punto di non riuscire più quasi a venirne a capo. Sarà Florindo, indotto a dichiararsi a Rosaura, a sciogliere ogni equivoco e a ricomporre la felicità delle coppie.
Note di regia
2007-2017: dieci anni di vita della Compagnia dell’Orso. Un compleanno così importante meritava un regalo speciale da fare a noi stessi e al nostro pubblico. La scelta è caduta in modo quasi automatico sull’autore con cui abbiamo cominciato la nostra avventura teatrale: Carlo Goldoni. Altrettanto naturale è stata la scelta del testo: Il bugiardo è una delle opere più divertenti del commediografo veneziano, ma è anche una delle più attuali, se è vero che il vizio che Goldoni – maestro nell’analisi psicologica dei personaggi – va a sviscerare è uno dei più “in voga” anche oggi. La bugia è il perno e il motore di tutta la vicenda: Lelio è un funambolo della parola che imbroglia, un autentico professionista della fandonia e tutto ciò che avviene in scena ruota attorno alle sue “spiritose invenzioni”, come lui le definisce, frottole così ben architettate da riuscire a ingannare chiunque. Ecco perché, tramite la difficile operazione di “asciugatura” e, in parte, di riscrittura del testo, ho cercato di dare il giusto rilievo al vulcanico estro menzognero di Lelio. Perché fa ridere, certo, ma anche perché fa pensare. La bugia come male di ogni tempo e, quindi, senza tempo, la bugia come male “universale”. È proprio questo assunto che ha guidato gran parte delle mie scelte registiche: penso, ad esempio, al minimalismo e alla sostanziale atemporalità degli elementi scenografici o alla voluta contaminazione di stili ed epoche per quanto riguarda i costumi e l’accompagnamento musicale; penso soprattutto al modo di porsi fisicamente da parte dei personaggi, specie nella relazione con l’altro, un modo spesso poco “goldoniano”, poco settecentesco. Il bugiardo è un capolavoro che offre una marea di spunti ed io, lo ammetto, di fronte a una gamma così ricca di ingredienti (un crescendo di esilaranti equivoci, variegate situazioni comiche, un caleidoscopio di caratteri, affascinanti psicologie…) non ho resistito alla tentazione di affondarci le mani, di giocarci, di sperimentare e – che Goldoni mi perdoni! – di metterci anche qualcosa di mio. Ma con due limiti ben precisi alla mia libertà creativa, due diktat che mi sono autoimposto e ai quali ho cercato di tener fede con fermezza: non tradire la sostanza del testo originario e non dimenticare mai che Goldoni deve, prima di tutto, strappare risate.
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