La cronaca dell' Aqua "granda"

4 novembre 1966

Il 4 novembre del 1966 è il giorno dell'Aqua granda, un'acqua così alta non si ricordava a memoria d'uomo. Venezia è quasi completamente sommersa dall'acqua del mare Adriatico in tempesta. Abbiamo scelto, per raccontare questo giorno, le pagine di Venezia fino a quando?, un testo ormai introvabile scritto da Giulio Obici, redattore allora di Paese Sera, nel 1967 e gentilmente concesso assieme alle fotografie.
 

Ore 18: una prova decisiva per la città

Alle 18, il calcolo delle ore trascorse sottacqua poteva dare un'intuizione dei danni e dei disagi già sofferti, e quello delle probabilità era paurosamente aperto: l'alta marea aveva invaso Venezia alle 22 del 3 novembre, elevandosi con un'impennata prepotente, e alle 5 del mattino successivo avrebbe dovuto, secondo le regole astronomiche, ritirarsi in buon ordine, magari per ritornare più tardi, cioè sei ore dopo. Alle 5, invece, la marea non ebbe che una tenue flessione, scoprendo appena qualche zolla d'asciutto: la laguna non era riuscita ad espellerla. Un primo allarme era scattato. Verso il mezzogiorno, in coincidenza con la nuova onda di marea, le acque, già gonfie, si gonfiarono ancora, recuperando il terreno perduto ed elevando ulteriormente la propria altezza in quello mai abbandonato. Saltavano i telefoni, spariva la luce elettrica e, in molte case, anche il gas: in quasi tutte le zone della città, pur se muniti di alti stivaloni, era impossibile transitare: qualche barca, sotto la pioggia e un caldo sciroccale, ramingava per calli e campi. Venezia, nel buio più completo, affrontava la sera, attendendo le ore 18 - che avrebbero dovuto segnare il secondo e ultimo deflusso di quel giorno - come si attende una prova decisiva. Il dramma in corso, che negli stessi attimi stava sconvolgendo per altre vie altre città e paesi, a Venezia poteva essere seguito e controllato sulle lancette dell'orologio, nella ricerca sottilmente angosciante della conferma che le regole e i tempi che governano la vita lagunare non erano stati del tutto sovvertiti. A Firenze - per spiegarci - il dramma non aveva né tempi né regole da infrangere: era un evento brutale, ingiusto, totalmente abnorme. A Venezia, per devastante che fosse, poteva essere mentalmente contenuto nello schema di un'ipotesi da secoli verificata, e così seguito con una terribile lucidità e con la consapevolezza di ogni minuto che scorreva e di ogni centimetro che le acque si guadagnavano nella loro crescita. Anche la gente che abita i pianterreni e che ormai aveva inutilmente accatastato mobile sopra mobile, non combatteva soltanto contro le acque, ma anche contro il tempo: se Venezia era Venezia, quella devastazione doveva pur cessare. Quasi a rendere più lucido, più percettibile, lo scorrere delle ore, la sommersione progrediva senza fragore di rotte, in un silenzio assoluto. Ingiusto e giusto, irregolare e regolare, il dramma soffocava la bestemmia e induceva alla speranza.

La prova fallisce

4 novembre 1966

Calata la precoce notte di novembre, bloccate le luci, rotto ogni contatto con il mondo che non fosse quello delle radiole a transistor, che tuttavia non restituivano ai Veneziani un'immagine probabile della loro vicenda, si attese l'ultima prova a cui la città e la sua laguna erano chiamate. La prova fallì: ancora una volta la marea non fu espulsa. Anzi - invertendo ogni regola e sconvolgendo ogni tradizione - proprio nel momento in cui avrebbe dovuto calare, riprese a salire. A quel punto - erano le 18 - l'incolumità di Venezia parve vacillare. Stavolta la minaccia non sorvolava la città: vi si era installata e vi maturava; non veniva da fuori per poi seguire prevedibili migrazioni, ma muoveva dal di dentro, dal corpo stesso di Venezia, e per giunta aveva acquisito i caratteri di un fenomeno inarrestabile. Che cosa era successo? Nella generale paralisi, che fin dalla mattina aveva coinvolto anche i telefoni, lo stupore o la disperazione erano rincarate da una paurosa incognita: verso sera, tutti avvertirono che un equilibrio plurisecolare si era rotto, che la città e la laguna avevano smarrito un anello, chi sa quale, del loro delicato ingranaggio. Nessuno, tranne pochi e i pubblici istituti (che in quelle ore parevano essersi diluiti nella marea), sapeva ancora che là, sui litorali, il mare aveva compiuto un disastro che nemmeno la guerra era riuscita a seminare: le difese costiere, tra cui i murazzi, erano scoppiate.

I litorali cedono: il mare tracima in laguna

Scoppiate e rase al suolo. Mentre Venezia affogava nella laguna e in un'attesa lacerante, sul cordone litoraneo si fuggiva. Qui la regola non conosce né ritmi né tempi: è una precisa demarcazione tra laguna e mare. Quel giorno, questa demarcazione non esisteva più: le onde marine, alimentate da un forte scirocco, si congiungevano alle acque lagunari valicando la fascia costiera anche nei tratti più estesi. Non era mai successo. Il Cavallino, che è una penisola tutta orti vigneti e campi, giaceva sotto una coltre di acqua salsa agitata da violente e altissime onde: addio alle coltivazioni per chi sa quanti anni. Decimato il bestiame, macchine agricole spazzate via e non più ritrovate. Invocazioni - si raccontò poi - di gente terrorizzata: qualche fuga in barca là dove prima c'era terra. Il Cavallino, come barriera naturale, non esisteva più: e infatti, l'isola di Burano, che gli sta alle spalle, veniva percossa da ondate paurose, come se d'improvviso si fosse trovata in mare aperto: anche qui la mareggiata entrava nelle case, sparivano la luce e il telefono, le barche si perdevano alla deriva; per di più, saltava anche l'acquedotto. La laguna ha una sentinella, l'isola di S. Erasmo: collocato proprio in faccia alla bocca del porto di Lido, vigila sulle acque che il mare vi incanala e le frena. Quel giorno, l'isola (mille abitanti) era scomparsa sotto ondate alte fino a quattro metri: molte case si svuotarono dei mobili, trascinati via dalle acque. Più oltre, lungo il Lido, la mareggiata decimava le strutture balneari, squassando centinaia di cabine e strappando la sabbia alle spiagge: alcune falle si aprivano sul primo tratto dei murazzi. Ma per i murazzi il vero disastro accadeva più in là, dove il cordone litoraneo si assottiglia ed essi diventano l'unico diaframma che divide il mare dalla laguna. Eretti dalla Repubblica Veneta due secoli or sono, furono concepiti e battezzati come le mura di Venezia contro le insidie dell'Adriatico. Accovacciate ai loro piedi, si stendono due borgate di pescatori e ortolani, settemila persone: San Pietro in Volta e Pellestrina, che se oggi sono ancora là è un vero miracolo. Le mura di Venezia, il 4 novembre, si sono aperte in una decina di punti per un totale di ottanta metri e per altri seicento si sono slabbrate o lesionate o incrinate. Agli abitanti del luogo parve giunta la fine del mondo: fin che il telefono funzionò, invocarono aiuto da Venezia, poi fuggirono in barca alla volta del Lido. Quando Venezia raggiunse le due borgate con una motozattera e alcuni vapori metà della popolazione era già scappata via. A sera mentre il mare continuava a sbriciolare le colossali mura, Pellestrina era pressoché deserta.

I litorali cedono: il mare tracima in laguna
 
 
I litorali cedono: il mare tracima in laguna
 
 
I litorali cedono: il mare tracima in laguna
 

Un capitolo ignorato dal centro storico

danni ai murazzi

I Veneziani del centro storico, sequestrati dalla marea, ignorarono questo capitolo del 4 novembre fino all'alba del giorno dopo. E forse fu addirittura una fortuna: poteva anche accendersi la scintilla del panico, e allora la paura del mare sarebbe corsa più in fretta della corrente. Però a chi abita sul bacino di San Marco quelle onde che ingobbivano la laguna e finivano per infrangersi sotto le arcate del Palazzo Ducale, dovettero portare un lugubre presentimento. Un gondoliere ci disse più tardi: -Credevo che il mare fosse arrivato fin qua-. E un vecchio che abita un pianoterra della Giudecca dichiarò a un cronista: -Avevo la sensazione che il mare volesse riempirmi la casa -. La verità è che, se il vento non fosse caduto improvvisamente e la mareggiata avesse potuto continuare anche per poco nella sua opera di distruzione, il mare avrebbe dilagato e messo a dura prova il centro storico. Le fondamenta dei vecchi palazzi, delle vecchie case, per le quali è un pericolo anche lo sciacquio del moto ondoso provocato dai natanti, avrebbero resistito? Per fortuna il vento cadde in tempo perché la dimostrazione del 4 novembre non si spiegasse per intero.

Un rito funebre sulla città agonizzante

rito funebre

Quando, verso le 21, ormai contro ogni attesa, le acque cominciarono a scemare, più d'uno dovette credere al miracolo. Il ritorno così tardivo alla regola fu un altro colpo di scena, un altro repentino voltafaccia. Così come era montata, la marea se ne usciva dalla città, improvvisamente e con una violenza pari a quella del suo accesso. Aveva raggiunto l'inedita altezza di un metro e novantaquattro centimetri sopra il livello medio del mare, devastato tutti i negozi della città, invaso tutte le abitazioni a piano terra, danneggiato quasi tutte le imprese artigianali, strappato la nafta a centinaia di caldaie, inzuppato e deteriorato un numero incalcolabile di libri nelle biblioteche, distrutto merci nei magazzini, mobili nelle case, atti pubblici in molti uffici. In ventiquattr'ore di assoluto dominio, le acque avevano dato la loro terribile dimostrazione e adesso potevano ritirarsi, restituendo ai Veneziani un'altra Venezia, di cui un po' tutti - potendosi infine riversare nelle strade improvvisamente accessibili - sentirono il bisogno di riprendere possesso. Il 4 novembre si concluse con un'immagine iperbolica, eppure lucidamente esatta. Nel buio profondo, senza luna, in cui la città era immersa, più che vedere si intravedeva: ecco la sagoma di una barca in una calle, muri listati a lutto da un segno nero di nafta, materassi sedie mobili immondizie sparsi dovunque, colombi e topi morti a ogni angolo di calle, desolazione nelle case a pianoterra. E su questo uniforme e immobile fondale, ecco centinaia di fiammelle, che lo percorrevano senza illuminarlo. I Veneziani, al lume di candela, perlustravano i luoghi della devastazione: eppure sembrava proprio che celebrassero un collettivo, struggente rito funebre sulla loro città agonizzante

 
 
 
Ultimo aggiornamento: 04/05/2017 ore 11:54