Qui e altrove - Il viaggio come metafora
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze [...] Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni”.
Il viaggio, in buona sostanza, è ben più importante della meta, così giustamente affermava il poeta Konstantinos Kavafis nella sua splendida Itaca (1911). Una visione del mondo evidentemente del tutto disattesa dal turismo attuale, che smentisce queste premesse per cavalcare approdi ben più sbrigativi e superficiali. Ma, per fortuna, al turista si contrappone il viaggiatore, come specificò Paul Bowles nel suo romanzo cult Il tè nel deserto: il primo alla fine non vede l’ora di tornare a casa, mentre l’altro si sposta più lentamente e anche per lunghi periodi, prendendo atto di ciò che è diverso dalla propria cultura e calandovisi con piena disponibilità. Viaggiare può essere però molto di più, si pensi all’Ulisse dantesco: c’è infatti chi – mettendosi alla prova e facendo violenza su se stessi e sulle proprie abitudini – non si limita a oltrepassare i confini ma vuole esplorare le frontiere, attratto dalla ricerca dell’incertezza, del mistero e, soprattutto, di sé stesso.
Non è quindi un caso che il cinema praticamente da sempre sia rimasto contagiato dall’innegabile fascino del viaggiare (un rito peraltro, se si eccettua il Grand Tour, relativamente recente, nato solo alla metà dell’Ottocento). La rassegna Qui e altrove. Il viaggio come metafora, che proporrà 18 film a settembre e ottobre presso il Candiani e la Casa del Cinema, mette la lente di ingrandimento proprio su questo tipo di opere, generalmente molto suggestive.
I 9 film del Candiani rientrano in quello che di fatto è un vero e proprio genere a sé: il cinema on the road, che incrocia trasversalmente tanti altri generi – dalla commedia al thriller, dal dramma al musical – e che trova i propri archetipi in due romanzi di enorme successo: Furore di John Steinbeck (1939) e Sulla strada di Jack Kerouac (1957). Un genere che trova i suoi innegabili capisaldi in Easy Rider e Punto zero e che spesso attrae, come il miele con l’orso, personaggi sregolati e trasgressivi, e con essi un pubblico incuriosito.
Spostandosi con ogni mezzo – auto, soprattutto, ma anche moto, treno o qualsiasi altro tipo di locomozione, non ultimo a piedi – il road movie permette la creazione di situazioni affatto nuove: percorsi inediti non previsti inizialmente, incontri che possono cambiare la propria vita (Viaggio in India), sorprese su sorprese (Marrakesh Express) o confronti rivelatori con i compagni di viaggio (Un biglietto in due). Talora poi alla base c’è il rinfocolare una speranza (Il viaggio) oppure il ritrovare un equilibrio perduto (Il treno per Darjeeling), dando vita fatalmente a nuove letture della propria vita, ben diversa quando la si osserva dall’esterno (Viaggio in Italia). Così, il più delle volte si ritorna alla base (quando si ritorna…) diversi, arricchiti spiritualmente, più forti e più deboli nello stesso tempo, ma anche un po’ stranieri per gli altri e soprattutto per se stessi (Il tè nel deserto).
Abbastanza diversi sono i 9 film della Casa del Cinema, nei quali si parla di altri tipi di viaggio, che forse è meglio chiamare evasioni, talora scaturite da qualche episodio estemporaneo, anche di fantasia. Di fondo, c’è l’insoddisfazione del proprio presente e quindi la ricerca di altre realtà, reali o anche solo immaginarie, ben più emozionanti, nelle quali ritagliarsi una vita più congeniale, sia pure solo sognata.
Così vediamo viaggi nel passato (Peggy Sue si è sposata) o nel futuro (Ritorno al futuro), in classi sociali più elevate (Sei gradi di separazione), in altre età (Da grande), in un altro sesso (Nei panni di una bionda), nel proprio mondo ideale (come la società televisiva perfetta ed idilliaca di Pleasantville), in un altro contesto che magari permetterà di vivere meglio (L’assedio, un film quasi profetico sull’esodo attuale dei migranti) fino a Il bagno turco. Hamam che fa scoprire il fascino dell’altrove contrapposto alla propria quotidianità, depauperata di valori ormai saldi e credibili. Into the wild. Nelle terre selvagge è poi un caso limite, nel proporre un sogno estremo di rottura nei confronti della società capitalistica, rifiutata in ogni sua manifestazione, per tuffarsi, in un empito romanticheggiante, nel seno di una natura che però si rivela infida e poco benigna. Tranquilli, però, non è sempre così: a volte per evadere basta solo la mente…
Vincenzo Patanè